Il 27 settembre si riaccendono le ostilità tra Armenia e Azerbaijan per il possesso del Nagorno-Karabakh. I due piccoli Paesi mettono a dura prova il precario equilibrio del Caucaso.
Lo scorso 27 settembre le forze separatiste del Nagorno-Karabakh e quelle dell’Azerbaijan sono ritornate ad affrontarsi. Scontri di una certa entità sono già avvenuti a luglio 2020, ma non sono bastati a convincere le due parti a cercare una pace duratura.
I separatisti appoggiati dall’Armenia e il governo azero forniscono due versioni differenti in merito agli inizi delle manovre belliche. Erevan accusa l’Azerbaijan di aver attaccato in maniera organizzata le posizioni dei separatisti con aerei ed artiglieria, ma l’offensiva azera è stata respinta e diversi mezzi abbattuti.
Il governo di Baku retto da Ilham Aliyev, invece, sostiene che è stato lui ad aver subito un bombardamento da parte delle milizie armene e per questo ha attuato una controffensiva vittoriosa.
Al di là della responsabilità del casus belli, le motivazioni che hanno portato i due Paesi ad affrontarsi di nuovo in Nagorno-Karabakh possono essere facilmente immaginabili.
Gli Azeri sono stretti nella morsa della pandemia di covid-19 e della crisi economica e il presidente Aliyev per distogliere l’attenzione da questi due temi ha puntato sulla riconquista del Nagorno-Karabakh separatista. In secondo luogo, tutte le potenze garanti della pace (Russia, Stati Uniti ed Unione Europea) sono attualmente impegnate in altre questioni e non possono intervenire con l’efficacia necessaria.
Nei primi giorni di belligeranza le truppe azere hanno conquistato alcuni villaggi di frontiera e bersagliano con l’artiglieria Stepanakert, il centro più importante del Nagorno-Karabakh. Però le forze separatiste locali e gli alleati armeni stanno opponendo una resistenza accanita, nonostante i mezzi bellici inferiori rispetto a quelli dell’esercito di Baku.
Il 29 settembre, a due giorni dall’inizio delle ostilità, il consiglio d’emergenza delle Nazioni Unite si è riunito per spingere le due repubbliche ex sovietiche a scendere a patti e firmare una tregua.
Antonio Guterres, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, si è espresso in merito alla questione chiedendo di “fermare immediatamente i combattimenti e tornare a negoziati significativi e senza ritardi”.
Mentre l’Armenia (supportata diplomaticamente dalla Russia) si è mostrata in un primo momento favorevole al dialogo, l’Azerbaijan vuole continuare gli scontri fino alla conquista definitiva del Karabakh montano.
Con l’irrigidirsi delle posizioni azere anche il governo di Erevan mette da parte la possibilità di risolvere tutto con la diplomazia. Entrambe le nazioni caucasiche hanno dichiarato la legge marziale e richiamato i riservisti. Queste dinamiche fanno presagire che uno scontro lungo e ad alta intensità sia possibile.
A complicare la situazione c’è anche l’ingombrante presenza della Turchia che appoggia apertamente l’Azerbaijan. Il supporto turco a Baku è stato confermato con un messaggio del presidente Recep Tayyip Erdogan, ma l’aiuto non si ferma solo alle parole.
In una comunicazione del ministro della difesa armeno Shushan Stepanyan si apprende che il 2 ottobre nei cieli del Nagorno-Karabakh, oltre all’abbattimento di tre aerei azeri, la distruzione di un SU-25 armeno ad opera di un F-16 turco. Inoltre gli armeni dichiarano di avere intercettazioni di personale militare turco nel teatro di guerra ad ulteriore conferma del diretto coinvolgimento della Turchia negli scontri.
Attualmente è difficile fare una stima delle vittime, ma, secondo alcune fonti imparziali, i morti sono più di cento e i feriti molto più numerosi. Di queste perdite i militari al fronte sono la maggior parte, ma ci sono anche delle vittime tra i civili.
Giorno dopo giorno il conflitto si allarga e si espande oltre il Nagorno-Karabakh fino a toccare le altre regioni al confine. È notizia di poche ore fa, infatti, che gli Armeni per rappresaglia hanno attuato dei bombardamenti contro Ganja, la seconda città dell’Azerbaijan, a nord del Karabakh montano.
L’opinione internazionale ha condannato le ostilità e ha esortato i due Paesi a firmare un cessate il fuoco e a intraprendere la strada verso una pace duratura. In questo senso si sono espressi Papa Francesco, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la Farnesina.
Il già citato Erdogan e il calciatore armeno Mkhitaryan si sono espressi con toni duri contro l’uno o l’altro belligerante. Il giocatore della Roma accusa l’Azerbaijan di portare ostinatamente avanti la guerra contro il popolo armeno che desidera solo vivere in pace.
IL NAGORNO-KARABAKH: STORIA DI UNA REGIONE IN GUERRA CONTINUA.
Il Nagorno-Karabakh (o Karabakh montano o Alto Karabakh) è un enclave armena di 4400 Kmq a pochi chilometri dal confine che divide l’Azerbaijan (che governa formalmente la regione) e l’Armenia.
Il 95% dei circa 150000 abitanti è di etnia armena e di fede cattolica contrariamente al resto della popolazione azera che è musulmana.
Queste caratteristiche etniche e religiose nel corso dei secoli hanno sviluppato nei due popoli un odio profondo che si è perpetuato nel tempo. Il reporter Ryszard Kapuściński giunse a dire che i due popoli hanno succhiato l’odio con il latte materno e forse nessuno sa neanche più il perché di tale risentimento.
La guerra nel Nagorno-Karabakh va avanti tra scontri e tregue da un trentennio.
Quando nel 1991 l’Armenia e l’Azerbaijan si staccarono dall’ormai moribondo URSS, questi due Stati caucasici si ritrovarono insoddisfatti dei loro territori e, liberi dal controllo dell’Unione sovietica, iniziarono a scontrarsi tra di loro.
In questo clima di tensione tra il 1992 e il 1994 si inserí il Nagorno-Karabakh che attraverso un referendum e una guerra per l’indipendenza provò a proclamare la nascita della Repubblica dell’Artsakh.
Attualmente questa piccola repubblica secessionista non è riconosciuta da nessuno Stato della NATO, ma governa de facto su tutto il suo territorio ed è slegata dalla volontà del governo di Baku.
Dopo la guerra agli inizi degli anni Novanta, le ostilità nel Nagorno-Karabakh sono continuate negli anni successivi senza che nessuna tregua sia riuscita ad avere effetti duraturi.
Le ultime recrudescenze degli scontri sono avvenute nel 2016 (la “guerra dei 4 giorni”) e nel luglio scorso. Le vittime di questa guerra trentennale ammontano attualmente a 30.000 e gli scontri hanno costretto almeno un milione di persone a scappare dalle loro case.
Le questioni riguardanti l’Armenia, l’Azerbaijan e il Karabakh montano sono seguite dal gruppo di Minsk creato in seno all’OSCE e composto da Francia, USA e Russia. Questo gruppo di potenze cerca di costruire le premesse diplomatiche per una pace duratura tra gli Stati del Caucaso, ma da trent’anni tutti i tentativi sono falliti.
La minaccia turca può portare il conflitto a un livello più alto?
Il rinnovarsi della contesa tra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh avviene in un periodo difficile per le potenze garanti dell’equilibrio nel Caucaso.
La Francia, come molti altri Stati, è impegnata nella lotta al coronavirus e nei problemi interni del Paese. Gli Stati Uniti sono attualmente in pieno periodo elettorale, mentre la Russia si muove sempre in maniera cauta per evitare l’inasprimento delle sanzioni economiche.
In questo panorama spicca la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Ankara negli ultimi anni è in espansione geopolitica grazie ad una politica aggressiva ed ambiziosa.
Le ostilità tra Erevan e Baku rappresentano per la Turchia un’occasione ghiotta per espandere la propria influenza nel Caucaso e battere sul tempo la Russia (che fino ad oggi ha fatto da paciere tra le due repubbliche rivali) e l’Iran che ha interessi nella zona. Erdogan, schierandosi al fianco dell’Azerbaijan, spera di poter mettere le mani sul petrolio azero (che attraverso degli oleodotti arriva fino in Europa) da usare come fonte energetica di facile accesso e come arma di ricatto contro la UE.
Inoltre i Turchi non sopportano la presenza degli Armeni vicino ai loro confini. Infatti l’odio verso gli Armeni è vecchio di più di cent’anni e ha portato al genocidio di un milione di persone dopo la Prima Guerra Mondiale.
Tuttavia questa politica detta “neo-ottomana” è una scommessa molto pericolosa per la Turchia. Erdogan sta muovendo le sue pedine in vari fronti caldi in Europa, Africa e Asia e un intervento in Nagorno-Karabakh potrebbe rappresentare il passo più lungo della gamba.
Infatti l’economia turca in questo momento è in grave difficoltà e la disoccupazione, già ora elevata, rischia di aumentare vertiginosamente quando verrà tolto il blocco dei licenziamenti. La lira turca negli ultimi anni si è svalutata in modo considerevole, mentre le infrastrutture, in particolare quelle sanitarie, versano in condizioni pessime a causa della pandemia.
Sul piano internazionale Erdogan deve gestire i rapporti tesi con l’Unione Europea per le questioni in Libia e Grecia e fino ad oggi il presidente si è sempre imposto grazie ad un atteggiamento aggressivo e ricattatorio. Infatti la Turchia usa le fonti energetiche e i migranti bloccati nel suo territorio come minacce per ottenere dalla UE finanziamenti e lasciapassare per le sue mosse.
Come denunciano i messaggi e le foto pubblicate dal ministero della difesa armeno e altri personaggi di spicco come l’ambasciatrice armena in Italia, Ankara non si sta muovendo nel Karabakh montano solo con proclami astratti in favore dell’Azerbaijan, ma sta anche impiegando la sua aviazione per colpire gli obiettivi militari.
Inoltre negli ultimi giorni si è fatta strada la notizia che il governo turco abbia assoldato dei gruppi mercenari già impiegati in Libia e li stia inviando nel Caucaso a dare manforte alle truppe azere.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan sta giocando una partita molto pericolosa che rischia di trascinare nel conflitto altre potenze e rendere uno scontro di portata limitata più grande e drammatico.
Inoltre questa politica espansionista potrebbe mettere in difficoltà la tenuta del suo stesso regime che ha consolidato negli anni estromettendo le opposizioni dal governo ed imprigionando una grande quantità di giornalisti grazie ad una rete di censura e controllo sempre più capillare.
C’è la possibilità concreta che queste due piccole repubbliche ex sovietiche, quasi sconosciute ai più ed in perenne conflitto tra loro, possano far parlare di loro non per la loro bellezza artistica e culturale, come meriterebbero, ma per il loro odio profondo e atavico.