Ci sono personaggi la cui vita tende a dipanarsi lineare, altri che nel corso dell’esistenza sperimentano esperienze contrastanti, coniugando irrazionalmente il sogno dell’infinito e la voglia della calma borghese. A questo secondo gruppo appartiene l’eroe di questa settimana: Giovanni Comisso.

Infanzia ed adolescenza.

Egli nacque il 3 ottobre 1895 da una famiglia benestante di Treviso. Sarà sempre molto legato alla sua città da un complesso rapporto di odio e amore, chiaramente espresso nell’occasione in cui la definì “troppo piccola per le grandi intelligenze che vi abitano”.

Fin da giovane frequentò le personalità più originali del luogo, a partire dallo sculture Arturo Marini, di sei anni maggiore. Costui, poverissimo, incolto, istintivo al punto da distruggere continuamente le proprie opere, dedito a creare in preda ad una sorta di misticismo nicciano; appare in evidente antinomia con il benestante Giovanni, che in quegli anni frequentava il ginnasio prima e il liceo poi ed era affascinato dalla vita agreste (che andava descrivendo in poesie dal netto sapore ermetico). Eppure, con sempre crescente preoccupazione dei genitori, che desideravano per il nostro una carriera avvocatura, il sodalizio si andò progressivamente rafforzando sino al 1914.

La guerra come volontario.

Fu allora che, convinto interventista, Comisso si arruolò volontario nel genio, finendo assegnato ad un reparto di stanza a Firenze. Lo scoppio della guerra lo portò presto in Friuli, dove venne presto promosso caporale e, in seguito ad un corso obbligatorio per chi avesse un titolo di studi, tenente.

Fu in questa veste che partecipò alla ritirata dell’esercito italiano in seguito a Caporetto, distinguendosi per l’abilità con cui seppe gestire il ripiegamento del suo reparto. Infine, sfiniti, gli italiani giunsero al Piave e, dunque, a Treviso. Qui il nostro trova la porta di casa sbarrata: i suoi genitori sono fuggiti a Firenze. L’esperienza lo segna, e quando gli austriaci provano di nuovo ad avanzare, invadendo il Montello, egli è tra i più attivi nella difesa: ora la battaglia non è più per il compimento del Risorgimento e la gloria d’Italia, ora si combatte per la sua casa e la sua città.

Con il passare delle ore e dei giorni gli asburgici vengono respinti oltre il Piave e lo scontro finisce per convergere su Vittorio Veneto. La storia è nota: gli italiani trionfano e, di fatto, vincono il conflitto. Di lì a pochi giorni le truppe regie entrano a Trento e a Trieste, l’Austria-Ungheria si arrende. È la fine della prima fase della vita di Comisso, che nel fortunato romanzo Giorni di guerra racconterà le proprie vicende di ufficiale nazionalista.

A Fiume con Keller e D’Annunzio.

La guerra “che sotto l’alta guida di S.M. il Re, Duce supremo, l’esercito italiano, inferiore per numero e mezzi iniziò il 24 maggio 1915 […] è vinta”, ma le tensioni internazionali non si stemperano. Al contrario, la conferenza di pace funge da catalizzatore: il presidente USA Winston dichiara di voler seguire, nel definire le condizioni di pace, il principio di autodeterminazione dei popoli ma si dimostra sordo al grido di Fiume, che, essendo a maggioranza italiana, chiede di essere annessa all’Italia. Inoltre, lo stesso presidente avanza riserve sui diritti del regno sabaudo sulla Dalmazia.

Il seguito è noto: la delegazione italiana abbandona la conferenza per protesta, con il risultato di venir estromessa dai promessi vantaggi territoriali in Africa e nell’Impero Ottomano.

E’ dunque inneggiando al proprio diritto di Italianità che, a più riprese, i cittadini fiumani chiamano in soccorso Gabriele D’Annunzio. Costui giunge a Ronchi l’11 settembre 1919 e, raccolte le proprie forze, marcia su Fiume, entrandovi il giorno successivo.

Negli ultimi, per lo più ingloriosi, secoli di storia patria, l’esperienza fiumana si distingue nettamente per coraggio e sperimentazione.

Anche se scuola di pensiero maggioritaria vede nell’occupazione della città una forma prefascista, ciò è vero solo in parte. Difatti, esattamente come nel movimento mussoliniano, tra i “legionari” si annoverano personalità dai più vari percorsi politici ed esistenziali: anarchici, sindacalisti rivoluzionari, comunisti, futuristi, monarchici, nazionalisti.

Inoltre la Reggenza del Carnaro fu tra i primi stati a riconoscere e a sviluppare rapporti con l’Unione Sovietica (sotto il patrocinio dell’Ufficio delle Relazione Esteriori, guidato dal poeta belga Léon Kochnitzky) e D’Annunzio fu definito da Lenin “l’unico rivoluzionario in Italia”, tanto che fu progettato un incontro con Gramsci, mediato da Bombacci (tra i fondatori del PCI e fucilato dai partigiani a Dongo, dove morì al grido di “Viva Mussolini, viva il Socialismo) ed impedito dall’ingresso delle truppe regie in città nel “natale di sangue”. Sempre l’energia di Kochnitzky arrivò a vagheggiare la costituzione di una “Lega dei Popoli Oppressi” da contrapporre alla “Società delle Nazioni” succube delle grandi potenze.

L’esperienza fiumana fu una fase di enorme dinamicità e sperimentazione politica, artistica e sociale. La Carta del Carnaro (scritta da Alceste de Ambris, sindacalista rivoluzionario) è un documento costituzionale molto avanzato (più del nostro, in alcuni passaggi), in cui all’idea corporativa che sarebbe stata ripresa dal fascismo, si univa l’apertura ai diritti umani, del lavoro, della donna e al municipalismo che, soprattutto nel nord (ma non solo) del nostro paese, ha un senso storico.

In senso più leggero, Fiume fu, in quegli anni, la “Città di vita”, un luogo libero dalle convenzione borghesi, in cui vigeva l’amore libero, anche omosessuale, un comunitarismo spontaneo nato dal cameratismo (come quello spartano); un teatro in cui mettere in scena tutte le nuove suggestioni futuriste (Marinetti fu spesso ospite e sul luogo operava un personaggio del calibro di Mario Carli) e dadaiste. L’atmosfera che vi si respirava era di una grande festa, in cui il volontarismo era sovrano.

I legionari stessi sono volontari. Alcuni sono giovani che non hanno preso parte alla guerra, gli altri sono disertori, termine che esprime bene il sentimento dei generali italiani di stanza nella Venezia Giulia nei loro confronti, ma che per essere del tutto efficace necessita della postilla aggiuntavi da Marinetti in quei giorni: in avanti. Questi ragazzi non stanno scappando dal proprio dovere, lo stanno compiendo contro il volere dei superiori. E tra costoro ritroviamo il nostro eroe.

Giovanni Comisso ha raggiunto Fiume con il proprio reparto e qui ha stretto amicizia con un personaggio molto influente: Guido Keller. Estremamente (e tale termine è da intendere in senso letterale) pittoresco (ma presto questa rubrica parlerà di lui), è l’unico a cui il Comandante conceda il tu.

Il nostro diventa la sua ombra, sia a livello politico, sia a livello esistenziale. Nel primo piano ciò comporta che Giovanni si schieri nettamente a fianco di coloro che vogliono fare del Carnaro la base di un movimento rivoluzionario a livello nazionale. Tra le varie richieste vi sono la Repubblica, la fine della morale borghese, la riforma del costume ecclesiastico (proprio la Carta del Carnaro prevede l’abolizione del celibato per i religiosi), la condivisone del potere da parte delle comunità sindacali (qualche potere ai Soviet), paradossalmente coniugata con l’aspirazione a riportare l’Italia ad essere un paese “di contadini, di pastori e di poeti”. Tutto ciò viene esposto nella rivista fondata da Keller e chiamata Yoga – Unione di Spiriti Liberi tendenti alla Perfezione. Tale foglio (che scelse come simbolo la svastica, compiendo a livello simbolico lo stesso anticipo che fu proprio di Van der Bruck quando, nel 1923, pubblicò Das dritte Reich), viene in pratica gestito da Comisso, che scrive la maggior parte degli articoli e che ne cura la pubblicazione.

A livello esistenziale, invece, l’esperienza fiumana travolge la vita del nostro, tanto che dopo qualche anno egli ricorderà come tutta la sua “ingenuità borghese” fosse stata spazzata via dalla guerra e dal soggiorno nel Porto dell’amore (come si intitola il romanzo autobiografico su questo periodo): egli scopre la bisessualità e infinite e varie pratiche amorose, viaggia insieme a Keller tra isolette e monti della zona, vive lunghi periodi in stato completamente selvaggio in una baracca che egli divide con il suo amico, incontra grandi artisti, scienziati, poeti.

E, infine, egli totalmente assuefatto. La vita pazzesca di Fiume gli pare noiosa, la cocaina lo ha stancato. È in questo momento che egli (che nel ‘21 ha 26 anni) per la prima volta costruisce il modello dei suoi amori successivi: si invaghisce di un ragazzo nemmeno ventenne, con cui sogna un sodalizio intellettuale quasi socratico, con lui nella parte del filosofo e l’altro in quella di Alcibiade.

Ma è un fuoco di paglia: il natale di sangue, con l’estrema resistenza dell’esercito legionario e la resa, spengono il sogno dannunziano. Solo il quel momento, nel suo romanzo, Comisso capisce cosa ha perso e scoppia a piangere dinanzi ad un Keller che, invece, è ancora esaltato dalla droga e da un eroico assalto a cavallo.

Il ritorno alla vita borghese: studente, esteta, marinaio.

Affranto, il nostro torna a Treviso e, seguendo le aspirazioni dei genitori, ricomincia gli studi legge presso l’Università di Padova (li aveva iniziati a Roma nel 1919).

Tuttavia, i rapporti tra il veterano fiumano e la famiglia borghese diventano ogni giorno più difficili ed egli, pertanto, accetta di trasferirsi a Genova, dove gli si prospetta la carriera da giornalista. In breve, entra in contatto con tutta le famiglie più in vista e si innamora della “Superba”. Compiendo il percorso inverso a quello di D’Annunzio, sembra che il trevigiano sia destinato a passare da soldato ad esteta.

Ma le promesse risultano infondate e dopo qualche mese, dopo aver infruttuosamente cercato un imbarco, torna in Veneto. Qui, durante una gita a Chioggia, incontra alcuni marinai che egli aveva, come ufficiale ammesso alla mensa del Vate, aiutato a vendere il carico nel 1920. L’accoglienza festosa diventa in breve, una comunione permanente: per tutta estate, e per molte altre negli anni successivi, Comisso rimane imbarcato sul Gioiello, vivendo dei piccoli commerci paralegali della nave, ed è felice. Impara a riconoscere i vari venti e persino le singole varietà di ciascuno. La sua sensibilità visiva, da sempre così sviluppata, è sopraffatta dagli infiniti stimoli che l’Adriatico gli offre.

All’inizio dell’autunno, tuttavia, i primi riconoscimenti letterari lo strappano da quel mondo ove egli sembra aver trovato la pace e lo portano a riprendere il suo furioso vagabondare.

Libraio a Milano, scrittore a Parigi e i primi successi.

I suoi lavori risultano sempre molto apprezzati, ma le copie vendute restano ancora poche. Pertanto, nel 1926, il nostro è a Milano, dove lavora come libraio presso la galleria d’arte “L’Esame”.

Finalmente libero dalle pressioni familiari, il nostro scrive ferocemente e compie un primo viaggio a Parigi, dove grazie ai buoni uffici di Svevo e del suo intimo amico De Pisis, spera di trovare un editore disposto a tradurre le sue opere in francese.

Il viaggio è un successo solo in parte: come al solito, Comisso conquista la buona società della Ville Lumière ed egli si perde nel fascino di quella città così incredibilmente dinamica ed avanzata; passa un intero mese nella capitale d’oltralpe, tra i locali e le corse di cavalli, tra i ricevimenti eleganti ed i musei, ma non riuscirà mai, per motivi di natura oltremodo varia, a vedere i suoi lavori pubblicati in langue d’oil.

Al ritorno a casa trova però una gradita sorpresa: il suo romanzo Gente di mare, ispirato ai viaggi sul Gioiello, ha vinto il premio Bagutta, superando persino Umberto Saba.

Giornalista in Africa ed in Oriente.

È l’inizio di un anno sfolgorante, che rilancia l’esistenza dell’ormai trentatreenne Giovanni. In quell’anno, infatti, consegue finalmente la Laurea in Giurisprudenza ed inizia una proficua carriera da giornalista. La sua nuova vita lo porterà di nuovo a Parigi ed in tutto il nord Europa.

Ma è solo l’inizio: nel 1931, subito dopo i funerali di Keller, il nostro parte per  l’Africa ed l’Oriente, in cui trascorre due anni viaggiando e scrivendo. Tiene una rubrica ibrida, in cui oltre alle sue esperienze compaiono vicende politiche, resoconti di guerra e brevi saggi di antropologia spicciola.

La sua carriera tocca l’apice, le donne se lo contendono: ancora giovane, bello e pieno di avventure da raccontare, egli finisce per ingravidare due giovani, senza mai riconoscere le figlie.

Il contadino, il maestro, l’amante.

Eppure, la vita attiva sta per finire: già da qualche anno Giovanni vagheggia un ritorno nella città natale, ove stabilirsi per vivere come poeta contadino dell’Arcadia. Nel 1933, a 38 anni, egli si stabilisce nella sua tenuta di Zero Branco, vicino alla città natale.

Qui, invero, egli pratica poco l’agricoltura, affidando tale compito ad alcuni braccianti. Comisso preferisce scrivere e creare una nuova razza di poeti. E’ il ritorno della vecchia suggestione socratica: i prescelti sono, contemporaneamente, amanti e discepoli. Due sono, in particolare, i protetti che si susseguono in quegli anni: scelti nemmeno ventenni tra i contadini più avvenenti, essi si trasferiscono presso di lui. L’amore carnale e l’ascesi intellettuale si fondono nella condivisione quotidiana.

Sono anni felici, che permettono al nostro eroe di curare la redazione definitiva delle sue opere maggiori. Il tempo trascorre tra gite in bicicletta, in barca, in automobile. Il mondo triveneto sembra contrarsi, nell’epistolario di Giovanni: un giorno è a Padova, quello dopo a Cortina, da cui scende sino a Pordenone, per poi tornare a rivedere l’amata Chioggia.

Tuttavia, entrambi gli esperimenti falliscono, il primo per il distacco progressivo del nostro da Bruno, che, nato contadino,  di divenire poeta non era entusiasta; il secondo per la morte (anch’essa da romanzo, articolata com’è tra psicodrammi, spie dell’OVRA, scambi di persona et similia) di Guido, giovane dotato e che aveva già iniziato a pubblicare qualche racconto. Costui fu fucilato (per errore, essendo egli stesso stato arrestato e detenuto per diversi mesi per attività antifascista) dai partigiani il 17 marzo del 1945.

Il dopoguerra e la morte.

È l’inizio della fine, per Comisso: come egli stesso dirà, dopo Guido non avrà più amori e l’esperienza a cui aveva dedicato tanti anni, dal ‘33 in poi, gli risulterà odiosa a tal punto da fargli vendere la tenuta. Inoltre, il dopoguerra, assieme a poche, seppur notevoli, soddisfazioni professionali (nel ‘55 vince il Premio Strega) porta nuovi lutti: su tutti, la morte della madre, di Arturo Martini e di De Pisis. Gli ultimi anni sono un lento declinare in cui l’energia di un tempo risplende ancora, talvolta: acquista una casa al Circeo, intenzionato ad andare ad abitarvi; viaggia a lungo al Sud, amandone l’intrinseca poesia; vagheggia un sodalizio con Pasolini. Ma sono solo piccoli palliativi: il soldato indomabile, il viveur che aveva affascinato ogni città, il marinaio entusiasta ed il poeta-maestro, il contadino e il giornalista d’avventura si spengono progressivamente ed inesorabilmente. Finché si giunge al 21 febbraio 1969, quando il nostro muore per una complicazione polmonare all’ospedale di Treviso. Viene sepolto nella sua città natale, quasi che quel loro rapporto d’amore conflittuale debba perpetuarsi in eterno.

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