Ultimamente, anche negli scorsi giorni in TV, si è spesso sentito parlare del franco CFA. Che cos’è? Perché questa moneta, di ben quattordici Paesi africani, divide così tanto le opinioni?

Il franco CFA nel 1945, quando fu coniato per la prima volta dal governo provvisorio di De Gaulle, significava franco delle Colonie Francesi d’Africa, dunque in origine era la moneta delle colonie francesi site soprattutto nella parte centrale e occidentale del “continente nero”.

Il franco “africano” fu coniato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, al momento della ratifica degli accordi di Bretton Woods, insieme al franco “pacifico”, ossia il franco CFP, la moneta delle Colonie Francesi del Pacifico.

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Utilizzano il franco CFA Camerun, Ciad, Gabon, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, ma anche Paesi non appartenenti all’impero coloniale francese come la Guinea equatoriale (ex colonia spagnola) e la Guinea Bissau (ex colonia portoghese).

Dal 1958 in poi, dunque a partire dall’età della decolonizzazione, il franco CFA ha iniziato la propria “evoluzione” diffondendosi in due diverse zone economiche africane: l’Unione economico-monetaria dell’Africa ovest-africana (UEMOA) e la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC). 

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L’UEMOA è poi confluita nella XOF, Comunità finanziaria dell’Africa, e la CEMAC nella XAF, Cooperazione Finanziaria dell’Africa Centrale. Ognuna di queste aree economico-finanziarie ha una propria Banca Centrale che emette il franco CFA.

Nonostante ci sia stata la decolonizzazione, i Paesi africani che utilizzano come moneta corrente il franco CFA quasi “inevitabilmente” sono rimasti nell’orbita francese (per dire, si parla ancora francese come lingua). Per cui dipendono come convertibilità di valute dalla Banca di Francia (non dalla Banca Centrale Europea), e tutti hanno depositato il 65% delle proprie riserve finanziarie presso il Tesoro francese (per un totale di circa 7 miliardi di euro). Dopo l’introduzione dell’Euro, il franco CFA “dipende” da questa valuta (un euro equivale a 655,957 franchi CFA), ma non dalla gestione della BCE.

Perché il franco CFA suscita così tante divisioni oggi?

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Di recente alcuni politici italiani hanno dichiarato che uno dei grandi motivi del drammatico fenomeno migratorio dei nostri tempi sarebbe proprio il franco CFA. È realmente così?

Il “nodo” principale che divide in merito a questa moneta africana è soprattutto il forte legame che, nel bene o nel male, si instaura con la Francia. Lo si “ama” o lo si “odia” proprio in ragione di questo peculiare legame.

I maggiori sostenitori del franco CFA sono le classi dirigenti dei Paesi che lo utilizzano e gli economisti francesi. Si sponsorizza l’uso di questa moneta in quanto, essendo vincolata all’euro, si mantiene sostanzialmente stabile. Dunque permette una certa “sicurezza” economico-finanziaria nei Paesi che l’hanno adottata, garantisce prezzi costanti, rapporti più “facili” con la Francia e l’Unione Europea.

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Chi invece critica il franco CFA appartiene alla categoria degli economisti africani ed europei (e anche molti movimenti anti-colonialisti anche se, ripetiamolo, ufficialmente non esiste più la colonizzazione in Africa, francese e non solo).

Il franco CFA, proprio perché così fortemente legato all’economia francese, ai tassi fissi imposti da Parigi, frenerebbe lo sviluppo economico dei Paesi che lo usano impedendo la piena indipendenza.

Perché sì, i prezzi restano costanti, ma i Paesi che hanno adottato i franchi CFA sono come dei “terreni recintati” privilegiati in cui le multinazionali francesi possono piantare con comodità le proprie tende. Sono canali preferenziali in cui immettere (per farli acquistare) beni anche di lusso europei e non solo.

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Da parte loro, i produttori africani che vogliono importare in Europa sono scoraggiati dal farlo in quanto i tassi fissi loro imposti dal Tesoro francese (da cui dipendono) sono troppo alti e rendono eccessivamente costose le merci africane.

A fine 2017, al termine di un viaggio ufficiale, il presidente MacrOn ha annunciato di voler ridiscutere con tutti i Paesi che hanno come moneta il franco CFA una riformulazione dell’intero sistema, dichiarandosi anche favorevole alla sua soppressione, se richiesto. Ad oggi però nessun Paese coinvolto ha manifestato questa volontà.

Dunque, ed è importante dirlo, i franchi CFA non sono un’imposizione o tantomeno una “tassa coloniale” imposta da Parigi per finanziare il debito pubblico francese.

Ci si può chiedere a questo punto, cosa c’entra il franco CFA con l’immigrazione? 

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I critici (anche nostrani) della moneta in questione “motivano” la propria opposizione per via del deleterio legame che suppongono esista fra franco CFA e immigrazione.

Il partito del “no franco CFA” è davvero trasversale, in Europa come in Africa.

Il tutto a causa della Francia e della conseguente unione monetaria che la collega a molti Paesi africani.

L’unione monetaria che si è configurata fra Parigi e l’Africa infatti porterebbe gli stessi problemi di crisi economica che esistono in Europa a causa dell’Euro. Allo stesso modo, sarebbe il franco CFA a causare quella perenne e tragica situazione di crisi economica che spingerebbe molti a tentare la sorte fuggendo dall’Africa e attraversando il Mediterraneo.

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In realtà, ci si accorge dalle tabelle dei dati, le polemiche sull’immigrazione “dovuta” a questo sistema economico perverso sono abbassante infondate, frutto più di false credenze.

Da pochi dei Paesi che hanno il franco CFA come moneta infatti provengono gli immigrati diretti verso l’Europa meridionale, sono “appena” duemila fra tutti gli sbarchi avvenuti nel 2018, dunque, numeri alla mano, i franchi CFA non sono e non possono essere una ragione sufficiente per attaccare i processi migratori.

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Alcuni politici italiani, anche membri di governo, hanno duramente attaccato il sistema dei franchi CFA e hanno accusato la Francia di fare del neo-colonialismo e di “impoverire l’Africa”.

Di tali accuse, la nostra ambasciatrice a Parigi, Teresa Cataldo, è stata chiamata a risponderne dal governo francese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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