Se la tua vita è poco gratificante o lo è fin troppo, non cambia poi mica molto. Hai sempre la tua foto del profilo su Facebook per colmare mancanze o rasentare quella che credi sia perfezione.

Il primo passo è ammetterlo. Qui non ti giudica nessuno. Soffri di una patologia, ormai comune, soprattutto tra i ventenni, chiamata “social narcisismo”. Ne risente la tua autostima, non è vero? Ma non importa quanto credi di essere popolare sui social, non importa quanti cuoricini riscuoti su Instagram, perché nella vita le priorità sono altre.

Capire che mentre sei al bar con gli amici, dovresti guardarli in faccia piuttosto che avere il capo chino su Fb, sarebbe già un passo in avanti, per dirne almeno una.

narciso-di-caravaggio-696x464 Narcisismo digitale: la patologia social
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Cos’è il narcisismo?

Secondo l’APA (American Psychiatric Association) può delinearsi un disturbo di personalità narcisistico se vi è una mancanza di sensibilità verso gli altri insieme a un’ostentazione di grandiosità e al bisogno continuo di adulazione.

Non esiste solo un narcisismo patologico ma anche uno sano: quando abbiamo un’adeguata autostima, quando vogliamo che gli altri riconoscano le nostre qualità, non siamo certo “malati”.

Chiaramente tra la patologia conclamata e un narcisismo utile per sè e per gli altri esistono tanti gradi intermedi: sono le persone che siamo e che incontriamo.

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Dimmi in che società vivi e ti dirò chi sei…

L’ambiente sociale influenza come il disagio personale può trasformarsi in malattia. Per esempio l’anoressia nervosa è un tipico disturbo che si manifesta nelle civiltà tecnologicamente avanzate e non nelle tribù.

Il nostro mondo è talmente basato sull’immagine che alcuni studiosi hanno proposto di eliminare il narcisismo patologico perché ormai siamo tutti molto “narcisi”.

Secondo uno studio, il Web 2.0 può incrementare il nostro narcisismo “cattivo”.
Non sono solo i selfie e la ricerca di like ma anche dei comportamenti online preoccupanti:

  •  incapacità di accettare critiche
  •  andare fuori dalle regole
  •  incapacità di prendersi le proprie responsabilità (“è colpa degli altri”)
  • andare facilmente su di giri (basta vedere a che livello di offese si può arrivare nei commenti).
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In principio fu il selfie

Era il 2013, quando l’Oxford Dictionaries decretò “Selfie” parola dell’anno, visto che rispetto al 2012 “Selfie” aveva conosciuto un trend di crescita del 17.000%. Praticamente tutto il mondo ne fu contagiato.

Evoluzioni sempre più attente delle fotocamere permisero perfette messe a fuoco, il proliferare di app e filtri, che consentirono di aggiustare lo scatto anche senza essere provetti fotografi, diedero al selfie, un potente allure.

Tutti ne furono sedotti. Oggi il selfie non è solo appannaggio di ragazzine in cerca di emulare celebrities come Lady Gaga o la celeberrima Kim Kardashian, ma anche di adulti agée.

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Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?

Se nella favola di Biancaneve era lo specchio a decretare la maliarda del regno, ai tempi dei social sono i like e i cuoricini a definire la nostra fama.

I like giocano un ruolo decisivo nelle patologie sopra citate, perché una volta postato il nostro selfie, o il post che racconta qualcosa di noi, sapete che accade? Si sta in trepida attesa dei like.

I selfie, come tutto ciò che postiamo, vivono in funzione delle interazioni che ricevono, che si traducono in una sorta di approvazione sociale. Tanti like significano popolarità, ammirazione, beltà.  Pochi like, una sconfitta cocente per il nostro ego.

Pochi di noi sono scevri dal peccato di aver postato foto o pensieri e di essere rimasti in attesa dell’altrui reazione a suon di notifiche.

È altresì vero che i social sono soltanto dei mezzi attraverso cui noi ci affacciamo sul mondo e addossare completamente a loro la responsabilità di tali e tanti fenomeni narcisistici, sembra un po’ esagerato.

I social sono solo strumenti ed è l’uso che ne facciamo noi a decretare la loro innocenza o la loro malignità.

Pertanto, godiamoci quel celeberrimo quarto d’ora di notorietà, senza che la voluttà di un’emozione ci trasformi nel vanesio idolo di noi stessi.

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