Site icon The Web Coffee

Parliamo con… Giommaria Monti

La storia e le esperienze di un giornalista ed autore di programmi televisivi.

Chi è l’autore di programmi televisivi? Concettualmente è il responsabile di un programma televisivo per quanto riguarda i contenuti, ideando e progettando i format. Esiste sia l’autore testi, che si occupa della redazione dei testi, appunto, di una parte della trasmissione, scrivendole in base ad un planning ideato dall’Autore. Il copione descrive poi sia le azioni, sia i contenuti parlati dei conduttori, personaggi ed ospiti, in modo dettagliato e preciso. 

Chi è Giommaria Monti?

Non è solo uno degli autori di Unomattina (format di RaiUno),di Annozero e di Moby Dick (con Santoro), ma è anche un giornalista ed autore di libri.

Per la carta stampata ha diretto il settimanale Left, che è diventato poi l’insero del sabato de L’Unità.

Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo per World Generations, e conoscere molto di più sulla sua carriera, la sua vita ed i suoi lavori.

M- quanto conta l’auditel nella scelta degli argomenti da trattare?

G- Ho cominciato a lavorare per la televisione nel 1998, con Michele Santoro a Moby Dick su Italia1. Cioè con un campione dell’Auditel: da Samarcanda al Rosso e il Nero, Santoro aveva cambiato il modo di fare informazione in tv. Con risultati d’ascolto straordinari, mai raggiunti prima nei programmi di informazione. Eppure la prima cosa che ho imparato lavorando con lui (in due riprese: dal 1998 al 2001 e dal 2008 al 2010 per Annozero) è che l’Auditel è un problema del giorno dopo la trasmissione, non del giorno prima. Certo, è importantissimo perché dal successo della trasmissione dipende la sua sopravvivenza: più gente ti vede, più è difficile chiuderti anche se sei scomodo. Il pubblico è quello che ci difende, mi ha sempre detto. Credo abbia profondamente ragione: se lui è tornato dopo l’editto bulgaro è stato certamente per il pubblico che non lo ha mai abbandonato, non solo per le sentenze dei tribunali. Ma quando prepari un programma, scegli un argomento e gli ospiti che ne parleranno, i servizi che verranno realizzati, i dati che verranno forniti al pubblico con i cartelli, ti devi porre il problema di “cosa voglio dire”, non quello del “piacerà?”. Si può parlare di tutto, non esistono argomenti più interessanti o meno interessanti. Dipende dalla loro attualità e da come li racconti. Da quello che vuoi dire, il punto di vista che offri al pubblico e dalla tua capacità narrativa. Io penso che la formula del racconto sia da sempre quella vincente (da sempre: da Omero in poi): siamo riusciti a raccontare la crisi degli Hedge found americani nel 2008 (la crisi che ha travolto l’economia mondiale) come una storia contemporanea. Questo ha prodotto risultati di ascolto importanti.

L’INTERVISTA CONTINUA NELLA PROSSIMA PAGINA

 

M-Si è liberi nelle tematiche da trattare?

G- La libertà, l’autonomia la si conquista anche con la responsabilità di chi fa il nostro mestiere. Si è liberi quando si è responsabili, si danno notizie vere, verificate, ci si pone delle domande, non ci si schiera per una interpretazione o peggio una parte politica. La libertà è responsabilità, verrebbe da dire parafrasando quel genio che era Gaber. E, per citare un altro grande, consapevoli che il mezzo è il messaggio: la televisione è particolarmente penetrante, forma le opinioni, le può condizionare e bisogna maneggiarla con cautela. Sul web girano notizie false, fotomontaggi, bufale non credibili eppure condivise da migliaia di utenti. In tv questo non può accadere: devi verificare che ogni cosa sia accaduta davvero e in che modo. Devi essere onesto e credibile

M- cosa vorrebbe trasmettere con il suo programma?

G- Un programma è sempre un lavoro corale, frutto della partecipazione di autori e conduttori che con la redazione scelgono i temi e come trattarli. E, come dicevo, che cosa si vuole raccontare. Io personalmente credo che la tv non debba avere un ruolo pedagogico per il pubblico. Non deve insegnare, per quello ci sono le scuole e le famiglie. La tv di informazione ha il compito di mostrare quello che accade, di raccontarlo e dare al pubblico il maggior numero di informazioni possibili. Con credibilità e verità, senza manipolare o omettere nulla. Ma anche con delicatezza, senza incedere sulla parte più morbosa che i fatti (soprattutto quelli di cronaca nera, ma non solo) hanno, senza dare spazio ai dettagli trash che magari ti danno mezzo punto di ascolto in più, ma sviliscono il tuo lavoro. Evitando l’effetto emulazione per il pubblico avendo l’accortezza di dare allo spettatore la capacità critica verso quello che gli stai raccontando. E avendo rispetto per i protagonisti di fatti drammatici, tanto più quando sono minori.

M- Cosa la ispira quando pensa agli argomenti da trattare?

G- La curiosità, che penso sia quello che ti porta a leggere un articolo di giornale, vedere un servizio in un telegiornale con più attenzione, ti porta a vedere un film al cinema. Quando leggo di un fatto mi chiedo sempre: cosa mi dice quello che è accaduto? Dove porta ragionare su questoo fatto? Se il cerchio si allarga e dal particolare (cioè dal fatto in se) si passa a un livello successivo (il contesto nel quale è avvenuto, ad esempio), e poi un altro ancora (le persone che sono coinvolte: le loro storie) e ancora (l’ambiente, la società che la storia attraversa) e così via, allora capisco che l’argomento ha un interesse ampio, che può essere lo spaccato di un mondo più grande. Perché un conto è riferire in un minuto e mezzo (in un tg, ad esempio) un fatto che è accaduto, un altro è occuparsene per più tempo con servizi, persone che intervengono, interviste etc. Cioè costruirci sopra un programma o un pezzo di un programma. O la storia dice anche altro, oppure non ha molto senso dedicargli una trasmissione intera.

CONTINUA NELLA PROSSIMA PAGINA

 

M- che difficoltà ha incontrato nel suo percorso?

G- Le difficoltà possono essere diverse: dalla logistica (non riuscire ad avere i protagonisti, o avere accesso ai luoghi dove i fatti avvengono) alla sostanza: di cosa stiamo parlando e perché? Ma la difficoltà più grande è sempre quella di trovare un filo logico nel racconto, che ti porti a centrare l’argomento senza commettere errori e senza cedere a facili scorciatoie. Santoro mi insegnò dai primissimi giorni: quando pensi a un argomento o a un ospite che ne può parlare, i primi nomi che ti vengono in mente scartali. Sono quelli più facili, fai uno sforzo in più. Poi magari quei nomi li recuperi, ma dopo averci ragionato. Vuol dire semplicemente: non fermarti alla prima cosa che ti viene in mente, la più facile. Ragiona, pensa, informati, leggi e dopo, solo dopo decidi. Ma prima ti sei documentato. Solo così eviti le cose scontate, la banalità

M- quale è il segreto per cui il programma va avanti ed è molto seguito ormai da tanti anni?

G- Se il riferimento è a Unomattina dove lavoro ora, francamente non posso rispondere per un programma che esiste in questa formula da 27 anni e dove io lavoro da appena 4. Voglio dire che il segreto non l’ho certo trovato io, che anzi mi sono sintonizzato sul programma per carpirne i segreti e fare al meglio il mio lavoro. Credo che il segreto sia l’offerta mattutina di informazione, servizi al cittadino, curiosità, fatti di costume e spettacolo con un ritmo serrato, sapendo che a casa non sono sprofondati in poltrona come la sera, ma ti seguono facendo mille altre cose alle 7 del mattino . E non avere il tono di chi ti spiega le cose del mondo, ma di chi te le racconta e vuole capirle con te, con la tua stessa curiosità mentre le guardi. In questo i nostri conduttori Franco Di Mare e Francesca Fialdini sono bravissimi.

M- quale è stato, tra i vari programmi di cui è stato autore, quello che le ha dato qualcosa in più nella sua esperienza?

G- Ho fatto molti programmi e indicarne uno significa fare un torto agli altri. Ciascun programma arricchisce chi ci lavora, se lo si fa con passione e impegno. Perché è un lavoro collettivo, di autori, conduttori, redazione, tecnici, produzione e tutto il mondo che ruota intorno a una trasmissione tv, dalla sartoria agli attrezzisti, dal trucco e parrucco alla grafica agli operatori e gli assistenti di studio. Non è un ammiccamento buonista per non fare torto a nessuno, ma è davvero un lavoro che coinvolge tutti. Posso dire chi tra i tanti che ho conosciuto mi ha dato qualcosa in più: è Michele Santoro. Oltre al grande conduttore e ideatore di programmi tv che tutti conosciamo, ha un approccio con le immagini, la narrazione televisiva, la scansione dell’itinerario del programma che lascia stupefatti. E lo capisci lavorandoci a fianco: Michele costruisce con una capacità ineguagliabile il racconto in ogni puntata, cura i servizi nell’edizione finale in prima persona in maniera tale che gli servono come snodi del racconto. E così tutto il resto. Ha un modo di costruire i programmi televisivi incredibile. E infatti dagli anni ottanta miete successi.

CONTINUA NELLA PROSSIMA PAGINA

 

M- Quale considera un valore aggiunto nella sua carriera? Sappiamo infatti che è stato autore anche di “annozero”, di “omnibus”.

G- Proprio i due che ha citato. Annozero per la ragione che ho detto prima: è la summa di quel ragionamento. Omnibus perché era una piccola nave pirata in un oceano di corazzate. Eravamo su La7 alle 7 del mattino e portare ospiti a quell’ora in una rete che faceva ascolti da prefisso telefonico della Sardegna o della Sicilia (0.70, 0.91…), è stata una grande scommessa. L’ho fatto per tanti anni, dalla nascita (2001, quando Omnibus era in pratica l’intero palinsesto della tv dei nanetti appena ribattezzata La7 dopo Tmc) al 2008, con una interruzione nel 2003. Unomattina era la corazzata contro la quale quel guscio di noce voleva misurarsi. E’ stato molto divertente e abbiamo fatto un bel lavoro, ne sono orgoglioso. Oggi che lavoro a Unomattina, però, tocco con mano la difficoltà, la complessità di un programma come questo. E la grande professionalità di tutti quelli che ci lavorano, realizzando insieme ogni giorno (ogni giorno, compreso Natale se non cade in un w.e.) un programma ricco di cose, di servizi, di ospiti, collegamenti dalle 6.45 del mattino alle 10. Vi assicuro, è molto complicato.

M- per quanto riguarda i suoi libri, cosa ci racconta sulla ragazza pakistana, Hina Salem, protagonista del suo libro?

G- Con il collega Marco Ventura (col quale lavoro adesso a Unomattina) decidemmo di raccontare la storia di Hina Saleem, la ragazza pakistana che a Sarezzo, a due passi da Brescia, fu uccisa dal padre e sepolta in giardino. Sembrava all’inizio un delitto a sfondo religioso, dove il fondamentalismo islamico aveva armato la mano assassina di un padre. Non era così, lo capimmo subito e facemmo una vera inchiesta giornalistica a tappeto. Ci recammo spesso a Brescia, parlammo con tutti i protagonisti della storia: dalla madre al fratello alle sorelle di Hina, dai magistrati ai carabinieri agli himam e i responsabili dei circoli religiosi islamici. E alla fine col padre in carcere, lo intervistammo con Marco a Ivrea e girammo l’intervista con una troupe televisiva. L’intervista divenne un capitolo del libro, poi la editai e ne ricavai 23 minuti che proposi a Monica Maggioni, oggi Presidente della Rai, allora responsabile di tv7, l’approfondimento del tg1. Lei la guardò e la mandò in onda integralmente: 23 minuti, una cosa anche rischiosa visto che era “solo” un’intervista. Invece ebbe un ottimo riscontro di pubblico e la BBC, per il canale mondiale News in the word, ci chiese dopo averla vista un pezzo dell’intervista, raccolse una battuta di Marco e una mia e mandò in onda un servizio di 5 minuti nel loro telegiornale. Una cosa importante, dicendo “per la prima volta un islamico si confessa a due giornalisti occidentali”. Era proprio così. Raccontammo tutta la storia di Hina come un romanzo, avendo come modello (inarrivabile) A sangue freddo di Truman Capote. Quello che volevamo emergesse nel racconto erano le tre ragioni per le quali quella storia doveva essere raccontata: l’integrazione dei musulmani, il rapporto padre-figli e, soprattutto, il possesso del corpo della donna. Il delitto di Hina era un delitto d’onore, perpetrato da un padre che non tollerava che la figlia vivesse a vent’anni da sola, si vestisse in maniera occidentale, non seguisse i suoi ordini. Emblematica nell’intervista al padre la risposta che ci dà alla domanda perché la seppellisce in giardino: volevo tornasse a casa. Adesso era tornata. Quello è il possesso del corpo, tu sei mia e faccio di te quello che voglio. Una barbarie presente a tutte le latitudini del globo, compresa l’Italia: le donne sfregiate con l’acido sono vittime di questo ragionamento criminale. Se la tua bellezza, il tuo corpo non saranno miei, non lo saranno di nessuno.

M- L’idea di scrivere l’opera di Falcone e Borsellino, da cosa è scaturita?

G- Nel 1996, quattro anni dopo le stragi di Palermo che raccontai dai crateri degli attentati per la radio, mi trovai a parlare con Luciano Violante, allora Presidente della commissione antimafia. Discutemmo a lungo di come Falcone e Borsellino, gli eroi nazionali che tutti chiamavano Giovanni e Paolo come fossero amici loro, in vita erano stati massacrati in tutti i modi: oltraggiati, umiliati, offesi, calunniati. E traditi dagli amici. Da tutti: giornalisti, colleghi della magistratura, politici. Allora mi venne l’idea di raccontare quelle calunnie ma non con la narrazione: con i documenti. Raccolsi articoli di giornale, dibattiti al Csm, spezzoni di interviste tv, interrogazioni parlamentari, lettere ai quotidiani che dicevano esattamente quello. Poi nel 2008 ripubblicai il libro con un documento in più: la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura. Nel 1989 Falcone scampò, sulla riviera di Modello, all’Addaura appunto, a un attentato con 58 candelotti di dinamite che furono scoperti e disinnescati. Si disse nemmeno a mezza voce che Falcone si era fatto l’attentato da solo per farsi pubblicità. Una cosa ignobile. Ci furono due processi e poi la Cassazione che riconobbero non solo che l’attentato era vero e fu evitato per un soffio. Ma che, scrisse la Cassazione, “Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio proveniente da più parti, perpetrato nel tempo e teso a svilire il lavoro del valoroso magistrato”. Lo ricordo a memoria quel passaggio. Scrissi nel libro che la mafia uccide in tre tempi: prima ti isola, poi ti delegittima e alla fine ti fa saltare in aria. Vinsi anche il premio Città di Gozzano, con Caponnetto in giuria. Nino Caponnetto più volte presentò in pubblico il libro e, come scrisse Rita Borsellino nell’introduzione alla seconda edizione, se ne portava sempre dietro una copia per dire ai ragazzi vedete? Le cose sono andate così… Da quel libro poi ricavai una lunga orazione civile per un concerto sinfonico scritto e diretto dal Maestro Stefano Fonzi. Il titolo era Il coraggio della solitudine. Il concerto girò l’Italia, soprattutto nei mattinee per le scuole. Nel 2011 la portammo nell’aula bunker del carcere de l’Ucciardone a Palermo. Il luogo dove si svolse il maxi processo contro la mafia, messo in piedi da Falcone e Borsellino. Chiesi a un grandissimo attore, Remo Girone, se poteva interpretare la voce narrante. Fu straordinario: disse di sì, lo fece gratis e venne dalla Svizzera (dove vive normalmente) per il concerto. Durante le prove mi cercò Agnese Borsellino, la vedova del magistrato. “Io sono molto malata, non posso essere con voi. Ma conosco il vostro lavoro e lo apprezzo molto. Potete ospitare i ragazzi della Fondazione Borsellino? Se domani è libero, può venirmi a trovare?”. Ammutolii, il giorno dopo in taxi raggiunsi la signora Agnese a casa sua. Al campanello c’era la targa Paolo Borsellino, magistrato. Mi fece accomodare nello studio del giudice, tra le sue cose e raccontò per due ore quei giorni. Fu un momento emozionante, indimenticabile. Uno dei momenti più intensi della mia storia professionale. Ma soprattutto umana.

 

[contact-form][contact-field label=’Nome’ type=’name’ required=’1’/][contact-field label=’E-mail’ type=’email’ required=’1’/][contact-field label=’Sito web’ type=’url’/][contact-field label=’Commento’ type=’textarea’ required=’1’/][/contact-form]

Exit mobile version